sabato 8 novembre 2014

ripensiamo il lavoro: una società eco-solidale

Nuova coscienza. 
Per crearla bisogna informarsi, pensare con la propria testa, valutare... e poi




"... Se penso  alla quantità e alla qualità di patrimonio storico e archeologico lasciato in abbandono o minacciato da speculazioni in regioni come la Sardegna, la Sicilia, la Calabria, la Campania, il Lazio non c’è dubbio che tocchiamo un nervo esposto di un Paese incapace di comprendere l’importanza e l’interesse della sua complessa e sfaccettata identità storica e di tradurla in un’attività culturale presente e in una possibile conservazione e fruizione rispettosa. Un discorso analogo vale per la ricchezza del patrimonio ambientale. Come è noto l’Italia è uno dei territori più ricchi di biodiversità dell’intera Europa: ospita circa il 43 per cento della fauna e della flora europea e circa il 4 per cento di quella mondiale. Ma è anche uno dei paesi più esposti in Europa al degrado degli ecosistemi e dunque alla perdita di biodiversità.
Credo d’altra parte che ci sia un motivo per cui non si è investito in quei settori. Non si è trattato di una semplice dimenticanza. Il motivo è che da un punto di vista simbolico il solo valore che conta in una società ispirata all’ideologia della crescita è il lavoro produttivo, sbrigativamente identificato con quello che genera rapidamente capitale da reinvestire e con quello che predispone all’ulteriore espansione del consumo. Non conta sottolineare che questi settori contribuiscono a produrre ricchezza non solo in senso immateriale ma anche materiale. È nel nostro immaginario che questi settori sono improduttivi. Come improduttive sono ritenute tutte le attività rivolte alla rigenerazione e alla manutenzione della vita e della comunità. La questione riguarda dunque in primo luogo come far fiorire queste attività nel nostro immaginario. Come riconoscere quella ricchezza e valorizzarla.
Il problema con cui la nostra società si confronta oggi non è la carenza di lavoro nel senso di possibili attività umane volte a conservare, consolidare o accrescere il benessere individuale e collettivo. Il problema riguarda piuttosto la divaricazione tra attività lavorative e reddito, e d’altra parte la divaricazione tra la diminuzione delle fonti di reddito e la crescente dipendenza dalla moneta per garantire il sostentamento proprio e della propria famiglia. Ovvero la realtà della “scarsità di lavoro” e contemporaneamente l’aumento dei working poors (persone che lavorano sempre di più ma che non ce la fanno a mantenersi) è – contrariamente a quanto si pensa – un effetto della modernità, della crescita e dello sviluppo e non un semplice effetto di una congiuntura economica sfavorevole.
Dunque la possibilità di inventare nuove forme del lavoro fuori dalla “società del lavoro” richiede di accettare di confrontarsi senza soggezione con un lavoro informale, con un lavoro de-mercificato, de-salarizzato, ri-localizzato, inventando modalità e soluzioni nuove che mettono insieme lavoro, attività, cura, tutela dei beni comuni, volontariato, formazione, scambio, produzione, riproduzione, autoproduzione, condivisione, redditi e benefici in forme e configurazioni differenti, ibride, plurali, in cui le vite, le esperienze, le differenze siano centrali e non accessorie. In altre parole non si tratta solo di inventare nuovi posti di lavoro ma di ripensare radicalmente l’idea di lavoro e di benessere (o ben vivere) nella nostra testa.
Da questo punto di vista si può riflettere sulla proposta di Alberto Castagnola di partire dai gruppi, comitati o coordinamenti locali più che attendere iniziative istituzionali dall’alto che potrebbero non arrivare mai. Si tratterebbe – secondo la sua ipotesi – di incontrarsi e individuare i beni comuni del proprio territorio che si vuole prendere in cura per elaborare un piano di intervento. Dunque si metterebbe in atto una mobilitazione e un lavoro senza retribuzione, a carattere volontario, perlomeno all’inizio del processo, in modo da far emergere l’importanza di singole azioni o progetti o di specifici settori di intervento valorizzando in questo modo sia i lavoratori che il patrimonio collettivo di una comunità. Lo scopo è creare una partecipazione dal basso e di mostrare un’alternativa alla sindrome della crisi economica, della mancanza di fondi, dell’atteggiamento passivo verso le istituzioni pubbliche e rappresentative. Questo tipo di temi potrebbero e dovrebbero entrare dentro alla discussione delle Reti di economia solidale, dentro alle esperienze dei Gas e più ancora dei Des (Distretto di Economia Solidale)"
estratto da: Usciamo dalla società del lavoro di Marco Deriu

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